Tra il 2010 e il 2013 sono stati espulsi dal Belgio 7.004 cittadini UE. Si potrebbe banalizzare pensando che ad essere colpiti siano cittadini rumeni e bulgari, invece no, nella “top ten” figurano anche spagnoli, olandesi, francesi, italiani, britannici… Il governo belga è stato per questo già messo in mora dalla Commissione europea nel 2013. Ciò nonostante il fenomeno continua, e il numero delle espulsioni cresce di mese in mese (+ 700% tra il 2010 e il 2013!).
Per frenare queste pratiche, su iniziative dell’Osservatorio 14 personalità del mondo sindacale ed accademico di diverse nazionalità avevano lanciato un appello alla vigilia delle elezioni europee. È un fenomeno infatti che si sta facendo strada anche in altri Stati membri. Con il supporto della Confederazione europea dei sindacati, il caso è stato sollevato anche in seno al Comitato consultivo per la libera circolazione dei lavoratori, dove siedono rappresentanti dei governi e delle parti sociali dei 28 Stati membri.
È in questo contesto che, per iniziativa de La Comune del Belgio e di Bruxelles Laïque (una delle più grandi e combattive associazioni per la difesa delle libertà operanti in Belgio), a giugno del 2014 si è costituita la Piattaforma contro le espulsioni Eu for People, che riunisce persone ed associazioni di diversa origine e provenienza (italiane, belghe, francesi, spagnole, portoghesi, greche, nord-africane, ecc.) che si battono per i diritti dei migranti.
È un’esperienza che sposta più avanti – a nostro modo di vedere – il dibattito sull’associazionismo italiano all’estero. Essa fonde, infatti, il principio del “mutuo soccorso”, che è all’origine de La Comune del Belgio, con la visione libertaria, internazionalista e interculturale di Bruxelles Laïque. Diventa il punto d’incontro di forze sindacali tradizionali e nuove aggregazioni della cosiddetta società civile. È il superamento, insomma, dell’associazionismo legato alla nostalgia verso il paese d’origine.
Il 4 novembre scorso, non essendoci stata nel frattempo alcuna reazione positiva da parte delle autorità belghe, una denuncia contro il Belgio è stata consegnata alla Commissione europea, per violazione della Direttiva 2004/38 sul diritto di soggiorno dei cittadini UE e del Regolamento 883/2004 sul coordinamento della sicurezza sociale. L’hanno formalmente sottoscritta il sindacato belga FGTB, l’INCA CGIL italiana, nonché Bruxelles Laïque e EU Rights Clinic (una rete europea di giuristi che si batte per i diritti di cittadinanza): tutte organizzazioni che partecipano ai lavori della Piattaforma.
La denuncia prende spunto da un caso, reale, di un lavoratore italiano in Belgio colpito da un ordine di espulsione per essere rimasto involontariamente disoccupato. Ma il significato politico e giuridico della denuncia va oltre il singolo caso personale. Oltre ai disoccupati, gli ordini di espulsione riguardano infatti ormai, sistematicamente, altre categorie di cittadini, come ad esempio i beneficiari di prestazioni sociali non contributive, e persino lavoratori dipendenti a tempo pieno, e in attività, assunti con contratti speciali finalizzati al reinserimento lavorativo di persone considerate difficilmente occupabili. Basandosi su un’interpretazione restrittiva e à la carte delle regole europee, le autorità belghe considerano questi cittadini un “onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale”.
Un Dossier a cura dell’Osservatorio chiarisce invece come le regole europee fissino anche una serie di garanzie a tutela del diritto dei cittadini UE, e delle loro famiglie, a soggiornare in qualsiasi altro Stato membro, garanzie che non possono essere ignorate da un paese per giunta fondatore dell’UE. La direttiva 2004/38 stabilisce, ad esempio, il diritto di accedere al sistema di protezione sociale del paese di accoglienza, fissa i limiti entro i quali si può porre fine al diritto di soggiorno e proibisce qualsiasi controllo sistematico sulle condizioni di residenza dei cittadini UE.
E il cooordinamento europeo dei sistemi di sicurezza sociale (reg. 883/2004), stabilisce a sua volta una serie di principi, il cui scopo generale è evitare che il lavoratore migrante si trovi – dal punto di vista previdenziale – in una situazione sfavorevole per il solo fatto di aver lavorato in più stati membri. Per fare un esempio, se si è lavorato in Italia e in Belgio, e in quest’ultimo si resta disoccupati, questo paese è obbligato a versare le prestazioni di disoccupazione tenendo conto – senza eccezioni e senza restrizioni – dei periodi di lavoro salariato maturati in entrambi gli stati membri. Già nel 1957, i fondatori della CEE avevano infatti capito che se la “libera circolazione” della manodopera doveva essere una condizione per la costruzione del mercato unico (di questo si trattava), essa non poteva che appoggiarsi su un “coordinamento” dei regimi nazionali di sicurezza sociale.
Il Belgio è, in questo momento, il paese che sta attaccando il diritto alla libera circolazione in maniera più sistematica. Ma fenomeni analoghi si stanno manifestando anche in altri paesi.
In Francia, ad esempio, secondo Médecins du Monde oltre 9.000 Rom cittadini europei (in totale, erano 15.000) sono stati espulsi nel 2010. Nonostante le denunce dettagliate fornite da varie associazioni sulla violazione del diritto dell’Unione Europea, e nonostante alcuni richiami all’ordine da parte della Commissione europea, che ha peraltro sempre rifiutato di aprire una formale procedura di infrazione contro questo paese, il fenomeno continua. Secondo un rapporto della Ligue des droits de l’homme, dei primi mesi del 2014, 20.000 cittadini europei stati sono in questo modo allontanati dal paese.
In Germania, ad agosto il governo ha annunciato una serie di misure contro gli stranieri che “abusano” delle misure di protezione sociale. Tra i provvedimenti cosiddetti antifrode, la riduzione delle prestazioni familiari ai lavoratori i cui figli non siano residenti in Germania. Una misura in aperto contrasto con le regole europee. Il regolamento 883/2004 stabilisce infatti che una persona ha diritto alle prestazioni familiari ai sensi della legislazione dello Stato membro competente, anche per i familiari che risiedono in un altro Stato membro, come se questi ultimi risiedessero nel primo Stato membro (articolo 67). E proprio in questi giorni il governo federale ha approvato una legge che istituisce nuovi divieti all’ingresso di cittadini europei.
Il Lussemburgo si era spinto più in là ancora, avendo introdotto un puro e semplice vincolo di “non esportabilità” degli assegni familiari per i figli non residenti sul territorio nazionale, vincolo reso poi nullo nel 2013 dalla Corte di giustizia europea.
Anche il Regno Unito non usa più mezze misure contro il presunto “turismo sociale” dei cittadini comunitari che mettono a rischio il benessere britannico, al punto che – dopo il fallimento delle procedure informali – la Commissione europea ha fatto ricorso alla Corte di giustizia dell’UE. In affanno per l’annunciato avanzamento a destra dell’UKIP (partito per l’indipendenza del Regno Unito), a sei mesi dalle elezioni il primo ministro britannico David Cameron torna ad invocare la soppressione, o perlomeno la riduzione, dei benefici concessi agli immigrati provenienti dall’Unione europea.
Questo per non parlare delle gravi esternazioni dei vari Salvini in Italia, che conosciamo fin troppo bene.
Diversi studi, anche della Commissione europea, hanno invece dimostrato che la migrazione è in definitiva un costo soprattutto per i paesi d’origine dei migranti, i quali si muovono innanzitutto alla ricerca di lavoro, e in generale, nonostante la crisi, riescono a trovarne uno. Sotto forma di imposte e contributi, la popolazione straniera fornisce insomma alle casse degli Stati più di quanto riceve sotto forma di aiuti e sussidi, come dimostra anche una recente ricerca dell’University College London, basata su dati di bilancio del governo britannico. Oltre ad essere quindi infondati sul piano empirico, secondo la Piattaforma contro le espulsioni gli atteggiamenti di chiusura nei confronti dello “straniero” sono inaccettabili eticamente, politicamente e giuridicamente. Rispecchiano una visione della società che gerarchizza le persone in funzione della loro presunta utilità economica.
Del resto, se oggi un paese come il Belgio è globalmente e soprattutto “di accoglienza”, questa è una delle principali conseguenze delle politiche di immigrazione che ne hanno permesso lo sviluppo industriale. I famosi manifesti rosa della Federazione belga delle industrie del carbone, che facevano l’elogio dello stato sociale belga per attrarre lavoratori italiani prima, marocchini e turchi poi, non erano in ultima analisi una forma di shopping sociale?
Altre espulsioni ci avevano già indignati e mobilitati. Il termine “espulsione” associato oggi al destino di un cittadino (o di una cittadina) europeo ci fa brutalmente paura. Se non reagiamo, questa estensione delle politiche di espulsione potrebbe domani colpire chiunque. Chi ha già esercitato il diritto di circolare liberamente in Europa, chi sta per farlo, o chi ha un figlio o una figlia che sicuramente lo farà: in quanto studente, precario, disoccupato, lavoratore, pensionato, o semplicemente perché motivati dal desiderio di cogliere queste opportunità che fino a ieri la cittadinanza europea sembrava offrire.
Carlo Caldarini